I due Contendenti (parte terza).
Mauro Goretti |
I due Contendenti (parte terza).
La forza dei numeri.
Sul finire del Cinquecento ben poche erano le città europee
che superavano i 100.000 abitanti: Costantinopoli, Napoli, Venezia, Milano e,
al Nord, Parigi, che alla fine del secolo giunse a toccare i 200.000. Mentre nel primo Seicento, grazie al nuovo
commercio transoceanico, Lisbona e Siviglia triplicarono il numero dei propri
abitanti, stimato rispettivamente in 100.000 e 120.000 persone. Anche Londra in tali anni salì a più di
100.000 abitanti, mentre Madrid, divenuta da insignificante cittadina
provinciale capitale del più grande impero cristiano, ne aveva solo 60.000, per
lo più alloggiati in misere abitazioni.
Nel complesso tuttavia lo sviluppo demografico ebbe un andamento diverso
in Inghilterra e in Spagna. Nella prima
si verificò un aumento lento e graduale fra Cinque e Seicento, che portò la
popolazione inglese da circa 3 milioni di abitanti ad oltre 5 milioni nel primo
ventennio del Settecento. Nella seconda
invece il notevole incremento verificatosi nel Cinquecento, che comportò quasi
un raddoppio della popolazione, passata
da circa quattro milioni a quasi otto, fu seguito da un’altrettanto notevole
contrazione nel Seicento, tanto che nel primo Settecento la popolazione si era
ridotta a poco più di sei milioni di persone.
D’altro canto una verifica dei soli numeri può certo apparire
insufficiente nel valutare i più complessi meccanismi dello sviluppo
demografico. In Inghilterra, ad esempio,
la popolazione era sicuramente molto più urbanizzata che in Spagna: mentre i
rapporti demografici potevano subire notevoli trasformazioni qualitative anche
nel breve periodo. Così la Spagna per
ben due volte subì il depauperamento della
propria forza lavoro, sia con la cacciata degli ebrei nel primo Cinquecento,
sia con quella dei “Moriscos” nel primo Seicento, quando circa 300.000 persone
furono espulse dalla Spagna in pochi anni.
Al contrario l’Inghilterra venne grandemente favorita dall’imigrazione
di fiamminghi e olandesi, verificatasi nella seconda metà del Cinquecento, e da
quella degli ugonotti fuggiti dalla Francia dopo la revoca dell’editto di
Nantes (1685). I primi favorirono
grandemente lo sviluppo delle tecniche agricole e quello delle manifatture tessili,
in particolare della “New drapery”, i secondi introdussero la fabbricazione del
vetro, la lavorazione della seta e dei panni fini, l’industria degli orologi e
dei saponi. La stessa politica economica
seguita in Inghilterra in tale periodo appare più accorta e avveduta di quella
spagnola, a lungo trascurata nel corso del Cinquecento. In tale secolo invece l’Inghilterra ridusse
le proprie esportazioni di lana grezza, una delle più importanti risorse del
paese (come del resto in Spagna), per favorire quella dei panni finiti e
semilavorati, la cui produzione venne triplicata, tanto che nel primo Seicento
le sole esportazioni erano stimate in circa 3 milioni di lire sterline. Al contrario la Spagna non riuscì a
sviluppare una propria industria tessile, continuando a restare un paese
produttore di materia prima, la lana, a vantaggio della stessa Inghilterra, che
si impadronì ben presto, con la sua produzione manifatturiera, sia del mercato
spagnolo sia di quello delle colonie. La
Spagna non riuscì neppure a sviluppare concretamente la propria flotta
commerciale: così se alla fine del Cinquecento superava ancora quella inglese,
nel Settecento contava appena fra 500 e 600 navi, contro gli oltre 3000
bastimenti inglesi. D’altro canto già
sotto Filippo II i nove decimi delle importazioni nelle colonie spagnole erano
di origine straniera, mentre nel primo Settecento gran parte del movimento
commerciale, sia attraverso il contrabbando, sia ufficialmente, era in mano
all’Inghilterra. Quest’ultima, in tali
anni, aveva raggiunto una posizione dominante nel commercio internazionale con
un traffico marittimo che toccava 594.000 tonnellate di stazza per un valore di
circa 12 milioni di sterline. Il declino
della potenza spagnola anche sul piano economico era ormai inarrestabile.
Il Tercio spagnolo.
Certamente se l’impero spagnolo poteva essere colpito sul
mare o in numerosi punti delle sue sterminate coste, godeva sulla terraferma
d’una superiorità militare schiacciante.
Il nerbo delle sue forze terrestri era indubbiamente costituito dal
“tercio”, unità base degli eserciti di Filippo II, forse il massimo prodotto
dell’evoluzione militare del Cinquecento.
Oltre a un distaccamento di cavalleria leggera e ad alcuni pezzi
d’artiglieria, il “tercio” era composto di circa tremila uomini divisi in dieci
compagnie, armati per due terzi con archibugi e per u terzo di picche. In pratica sul campo di battaglia esso
costituiva un bastione di picchieri e di archibugieri, integrati gli uni con
gli altri, permettendo i primi la difesa contro la cavalleria, i secondi contro
la fanteria. Al tempo di Filippo II la
fanteria spagnola contava circa centomila uomini, di cui ottantamila impegnati
nelle Fiandre e ventimila di stanza nei vari presidi; di essi solo un decimo
veniva reclutato in Castiglia; tutti gli altri erano reclutati su base
regionale, in buona parte anche in Italia.
Sotto Filippo IV, nel 1625, le truppe spagnole erano salite a circa
trecentomila uomini, in maggioranza mercenari; nelle Fiandre la fanteria
contava circa settantamila uomini, di cui ottomila castigliani, con un costo
finanziario assai pesante, che contribuiva non poco ai continui fallimenti
delle finanze spagnole. Tra il 1580 e il
1640, per le sole truppe impegnate nelle Fiandre, il tesoro spagnolo dovette assicurare
ogni anno, regolarmente, 60-70 milioni di fiorini per il loro
mantenimento. Tutto ciò comportò una
progressiva riduzione della stessa flotta spagnola; “l’armada” del Mar Oceano,
varata nel 1580, contava sotto Filippo IV solo quarantasei vascelli, ridotti a
poco più di venti alla fine del Seicento, mentre “l’armada” di Barlovento,
istituita nei Caraibi e adibita spesso come scorta ai convogli che
trasportavano l’oro e l’argento, rimase sempre una ben piccola flotta.
Il vascello inglese.
Nel 1578, con mossa felice, Elisabetta affidò a John
Hawkins, sperimentato uomo di mare, l’incarico della costruzione delle navi da
guerra. Contro le idee della vecchia
scuola, che privilegiavano la costruzione di grandi galeoni con alti castelli
da occupare con truppe di fanteria, ma che sarebbero poi risultati lenti alla
manovra e poco autonomi in mare per l’alto numero di uomini a bordo. Hawkins costruì navi basse, di lunghezza
proporzionata alla larghezza, docili alla manovra e fortemente armate lungo le
fiancate. Nacque così il vascello
inglese, destinato nel corso del Seicento a diventare il re del mare
Oceano. Nel 1702 una statistica
ufficiale delle autorità doganali inglesi stimava in tremiladuecentottantuno
navi l’effettivo della flotta commerciale inglese, con ventisettemila uomini
d’equipaggio e una capacità di carico di 261.000 tonnellate. Ad esse si affincò poi nel Settecento la
flotta delle navi negriere, con circa duecento unità che impiegavano da quattro
a cinquemila uomini d’equipaggio. I
vascelli inglesi del tempo di Elisabetta erano a due o tre ponti, con tre
alberi armati a vele quadre e rande, di stazza non superiore alle 500
tonnellate, simile a quella delle grandi navi della Compagnia delle Indie
Orientali, che tuttavia, nel 1610, fu in grado di armare una nave di ben 1100
tonnellate. La superiorità navale inglese fu tuttavia anche il frutto di un
lento processo verificatosi nel corso del Seicento, sia nel campo delle
costruzioni che in quello dell’armamento, nonché delle conoscenze tecniche e
dell’uso degli strumenti nautici, bussola e cannocchiale prima, sestante e
cronometro dopo, che permise alla marina
britannica di raggiungere e superare quella olandese, soprattutto
nell’importante settore militare. Ancora
una volta le lunghe guerre per il predominio europeo e l’inutile lotta contro
le Provincie Unite furono decisive per il declino dell’influenza spagnola in Europa.
Certamente la Spagna riuscì a conservare la propria integrità
territoriale fino alla pace di Utrecht del 1713, ma già sul piano militare la
sconfitta delle proprie fanterie a Rocroi prima, e nella seconda battaglia
delle Dune (1658) dopo, comportarono un deciso spostamento dell’asse politico
militare in Europa a tutto vantaggio della Francia di Luigi XIV. Mentre lo scettro imperiale sugli oceani e
nei territori d’oltremare veniva preso sempre più saldamente in mano
dall’Inghilterra di Carlo II e di Guglielmo III.
La Rivoluzione Scientifica.
Il lungo conflitto fra Inghilterra e Spagna per il controllo
di un’economia sempre più estesa su scala mondiale potrebbe anche essere visto,
in chiave politica,come il successo della monarchia parlamentare inglese sulla
monarchia assoluta spagnola. Ma al di là
di una concezione storiografica puramente economica, se non materialistica, non
bisogna dimenticare gli importanti successi politici conseguiti
nell’Inghilterra del Seicento, nonché quel clima culturale che portò nel paese,
a una vera e propria risoluzione scientifica.
La prima rivoluzione, con l’esecuzione di Carlo I e l’avvento di
Cromwell (1649), favorì indubbiamente il crollo di qualsiasi tentativo
assolutistico della monarchia, consolidò una forte mobilità sociale nel paese e
rilanciò lo stesso ruolo imperiale della Gran Bretagna. La seconda rivoluzione, del 1688-89, portò
invece alla nascita della prima monarchia costituzionale e parlamentare in
Europa e sancì quel’equilibrio fra le varie classi che doveva restare per
secoli una delle caratteristiche più notevoli della società inglese. Così anche sul piano politico, quasi negli
stessi anni in cui l’opposizione popolare all’assolutismo spagnolo non riusciva
ad andare oltre la semplice sollevazione o la rivolta, come a Napoli, in
Sicilia o in Catalogna, l’Inghilterra riusciva a trovare un equilibrio fra
monarchia, parlamento e classi sociali che contribuì non poco alle successive
vittorie dell’impero britannico. Un
nuovo clima culturale sembra permeare il paese nella seconda metà del Seicento:
nel 1662 viene creata la Royal Society, un’accademia autonoma e indipendente
dallo stato, che si reggeva sull’autotassazione dei suoi soci, fra cui R. Boyle
o lo stesso Newton, più tardo destinato ad esserne presidente. Tra i suoi compiti anche quello di
sovrintendente all’Osservatorio Reale di Greeenwich (1675), ma soprattutto
occorre ricordare come in essa era confluito quasi tutto il gruppo di
matematici, astronomi e filosofi che si riuniva, fin dal 1645, intorno al
Gresham College. Riprendeva quindi
vigore e anzi si istituzionalizzava, in Inghilterra, quell’intreccio fra
ricerca scientifica e attività pratica che aveva già tanto contribuito al
progresso dell’astronomia, della cartografia, dell’ingegneria, della matematica
o dell’ottica. Così l’apparizione dei
“Principia” di Newton nel 1687 e la diffusione del calcolo infinitesimale non
fu che uno dei risultati, certo fondamentale, della rivoluzione scientifica,
che aveva già visto in Inghilterra l’introduzione della geometria analitica,
dei logaritmi, della chimica di Boyle, o la scoperta della circolazione
sanguigna ad opera di W. Harvey.
Il secolo d’oro spagnolo.
Viceversa la società spagnola del Seicento era diventata
sempre più aristocratica: segno in un certo senso dell’indebolirsi del potere
monarchico e della sua incapacità di favorire l’equilibrio delle classi. Le cinquantacinque famiglie titolate del
regno sotto Carlo V divennero novantanove sotto Filippo II,
centoquarantaquattro sotto Filippo III prima che Filippo IV ne aggiungesse
altre novantadue e Carlo II addirittura duecentonovantadue. Ciò significa un forte aumento del numero dei
feudi, il proliferare dell’istituto del maggiorasco, la riduzione della piccola
proprietà, mentre il numero degli ecclesiastici, stimato nei primi anni del
Seicento intorno alle centomila unità, era salito nei primi del ettecento ad
oltre duecentocinquantamila.
L’Inquisizione inoltre continuava ad assicurare, grazie anche all’Indice
dei libri proibiti, un conformismo intellettuale che comportò la decadenza
anche di quella gloriosa tradizione di pensiero politico che tanta fortuna
aveva avuto nel Cinquecento. La
creatività spagnola trovò allora il suo terreno più congeniale nel campo della
letteratura e delle arti, raggiungendo quella splendida fioritura che
caratterizzò “el siglo de oro”. Nella
pittura si rivelarono fondamentali sia la committenza ecclesiastica che quella
della Corte. Murillo, El Greco,
Velasquez diedero il meglio delle loro opere lavorando su tali committenze in
una riuscita sintesi fra la tradizione locale, ricca di misticismo spirituale e
aspro realismo, e una padronanza della tecnica europea della prospettiva e del chiaroscuro. Nella letteratura fiorì l’estro poetico di
Luis de Gongora, la cui produzione, circolata manoscritta fino alla sua morte,
attingeva al ricco patrimonio popolare di ballate che esprimevano lo spirito
del mondo contadino del tempo. E se con
Cervantes si arrivò ad una raffinata capacità di scavare nel profondo
dell’esperienza umana mantenendo tutta la tensione ideale che caratterizzava la
Spagna del tempo, fu nello sviluppo del dramma moderno che venne raggiunta una
prima rappresentazione reale della società spagnola e della sua vita
quotidiana. E ciò sia con un genere così
particolare come gli “autos sacramentales”, rappresentazioni allegoriche della
verità della fede recitate anche nelle strade, in cui brillò particolarmente
Calderon (1600-1681), sia con gli oltre 1500 drammi sfornati da Lope de Vega
(1562-1635), per un pubblico regolare che era diventato quasi di massa. Sconfitta sul piano politico ed economico
della concretezza la Spagna riuscì così a dare un immenso contributo alla cultura
europea in una felice e forse ineguagliata sintesi fra gli ideali dello spirito
e la realtà terrena.
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Ciao a tutti voi, sono a chiedervi se avete preferenze per Post di vostro interesse
in modo da dare a tutti voi che mi seguite un aiuto maggiore, grazie per la vostra disponibilità.