Le riforme Leopoldine.
LE RIFORME LEOPOLDINE
In
realtà,l'iniziativa riformistica non prese le mosse
dal granducato
leopoldino,cominciato,come si sa,
nel 1765,ma con
l'avvento del regime lorenese,
e fin dai primi
anni di quel governo,quindi
dal 1740 circa. Fu
merito innegabile
dell'amministrazione
lorenese,da quella
specie di reggenza
o di luogotenenza tenuta
dal principe di
Craon e dal conte di
Richecourt
(l'assenza del principe
Francesco Stefano
era appena indirettamente
compensata da
orientamenti molto
generici
provenienti dalla corte di Vienna),
avere affrontato i
problemi aperti,
e gravemente
aperti,della gestione della
cosa pubblica. In
effetti,l'aver affidato
questo compito a
compagnie straniere
fatto per vari
aspetti discutibile e
deteriore passa in
seconda linea di
fronte
all'emergenza delle molteplici
questioni inerenti
appunto alla pubblica
amministrazione:non
solo il fenomeno
dell'impoverimento
dello Stato,ma
quello forse più
inquietante della
tutt'altro che
equa distribuzione
della ricchezza e
dell'esistenza di
tutta una somma di
meccanismi
tradizionali
ostacolanti una politica
economica unitaria
e coerente.
In parole
povere,l'amministrazione
lorenese si trovò
difronte,con una
coscienza statuale
già lucida,
al problema della
presenza della
Chiesa,o meglio
del complesso
delle situazioni
ecclesiastiche,
così sotto
l'aspetto “secolare”
come sotto quello
“regolare”,
con tutto il peso
temporale,
e
temporalistico,che ne conseguiva:
in sostanza un
regime privilegiato
nell'ambito del
governo della
cosa
pubblica,ispirato invece
ad una normativa e
ad una condotta
“civilmente”
paritaria. Nonché
l'amministrazione
lorenese,nel
ventennio o poco
più che precedette
l'avvento del
granduca Pietro Leopoldo,
operasse con molta
incisività e molta
fortuna in un
campo così sensibile
e delicato,per di
più sorretto da
una tradizione a
proprio favore
ormai secolare.
Tuttavia qualche apertura,
che a molta parte
dell'opinione pubblica
contemporanea
parve scandalosa o quasi,
si tradusse in
provvedimenti concreti,
fra i quali due
furono i più cospicui:
la limitazione,non
lieve,dei poteri
dell'Inquisizione
ecclesiastica,
e il divieto alla
Chiesa di acquistare
beni immobili e
fondiari per un
ammontare
superiore ai cento zecchini.
Le sue
disposizioni,in se e per se del
tutto
eterogenee,empiricamente
si integravano
l'una con l'altra.
Minore capacità
di interferenza
della Chiesa sul
piano del controllo
e del dominio in
materia ideologica
e dottrinaria da
un lato,minore
capacità della
Chiesa stessa di
operare
economicamente,rafforzando
il già
consistente patrimonio del
complesso soggetto
religioso.
Il tema
fondamentale del discorso
riformistico,se
pure in modo
incompleto e
metodologicamente
rudimentale,era
avviato:si trattava
di riordinare la
cosa pubblica,
di rimettere in
piedi lo Stato
secondo l'unica
ragione possibile,
quella “civile”.
In tale processo,
lo Stato si
trovava difronte
l'organizzazione
ecclesiastica,
con tutta la sua
stabilita figura
temporale.
Occorreva aprire e
porre su di un
nuovo piano,
quello moderno
ispirato alla
cultura e
all'etica “illuminata”,
i rapporti fra
Stato e Chiesa.
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