Accenni del grande Leonardo da Vinci.

Aramini Parri Lucia








Accenni del grande Leonardo da Vinci.

I confratelli di San Francesco Grande si videro presentare una tavola (la Vergine delle Rocce) che non assomigliava per niente a quanto avevano voluto e prescritto e che, per giunta, risvegliava stupori inquieti nei fedeli che contemplavano, sul loro più caro altare, una composizione così misteriosa. I profeti, che nella tavola avrebbero dovuto avere la stessa funzione dei santi e dottori della Chiesa nella pala Sforzesca (dipinto di anonimo Lombardo a Brera), sono qui scomparsi e così gli angeli musici che avrebbero dovuto far corona alla Madonna: quelli che il maestro ha lasciato al pennello di Ambrogio De Predis sono confinati sulle ali della pala. Perché Leonardo sa bene che la segreta musica di cui questa pittura risuona tutta non potrà essere udita se l'occhio di chi ascolta sarà distratto da qualche strumento dipinto. Egli dunque deliberatamente ripudia quei bei gruppi di angeli musici che pure gli erano stati ordinati e che Piero della Francesca e Bramantino dipinsero con aspirazione. Se fossero stati presenti, il riguardante avrebbe pensato alla musica delle schiere celesti, distolto da questa del dipinto che non è da udire ma solo da sentire dentro di noi. Perché la musica della Vergine delle rocce si alzi nei suoi elementari e celesti accordi, bisogna che gli strumenti siano invisibili, essendo essa la musica delle piante, dell'acqua e del vento tra gli spuntoni delle rocce, dei gesti e dei sorrisi, che nessun flauto o lira o liuto saprebbe esprimere. L'armonia che qui si intende è il canto della terra, il respiro degli elementi, il messaggio di quell'”Erdgeist” (spirito) che un giorno apparve a Faust Vecchio e lo atterrì, ma che era familiare al giovane Leonardo, il quale ben sapeva che l'anima del mondo e quella dell'artista sono una cosa sola. Tutto ciò che costituisce il valore della vita umana conduce al senso della sua precarietà, ma soprattutto della sua ambiguità fondamentale. Questo senso di una posizione ambigua dell'uomo tra l'orribile e lo squisito, tra il certo el'illusorio, si è accentuato in Leonardo con gli anni; c'è nella sua opera pittorica uno sviluppo parallelo del chiaroscuro. Il principio di esso era anzitutto l'interesse del contrasto che valorizza i termini opposti: “le bellezze con le bruttezze paiono più potenti l'una per l'altra”. Egli si è dunque compiaciuto di far scivolare “insensibilmente le dolci luci nelle ombre deliziose”, risolvendo in questo modo il conflitto fra il disegno e modellato certo, lo sfumato è anzitutto una soluzione pittorica: fa emergere le forme, senza ricorrere alla brutalità dei contorni e dell'accentuazione del rilievo; conferisce loro una qualità liscia e continua. Anche in pittura vediamo Leonardo affrontare il conflitto dello stile con una decisione altrettanto originale che nei problemi intellettuali. Il suo procedimento è opposto a quello del Botticelli, che si chiude nell'astrazione toscana, di un Ghirlandaio, o anche di un Piro di Cosimo, che accumulano senza assimilare completamente. Dichiarando che, come Giotto e Masaccio, si deve essere unicamente “figli della natura”, egli intende affermare che tutti i problemi della pittura, a tutti i gradi, devono venire ripensati integralmente. Lo sfumato risolve le difficoltà del disegno e ottiene l'unità delle forme entro lo spazio avvolgendole nell'atmosfera; ignorando vuol dire “somigliare ai belli parlatori senza alcuna sententia”.
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