I tornei cavallereschi. Storia. Seconda parte.
Aramini Parri Lucia |
I tornei cavallereschi. Storia. Seconda parte.
Il tramonto del cavaliere.
La causa della crisi
è da collegare soprattutto, ma non esclusivamente, all'invenzione
delle armi da fuoco e dell'artiglieria, che comportò il declino
della cavalleria, e la perdita d'importanza del ruolo della stessa
nelle battaglie. Un'ottava dell'Orlando Furioso manifesta
meglio di molte argomentazioni il fastidio e il disagio della classe
cavalleresca, disorientata dai nuovi ritrovati, “abominosi ordigni”
che rendevano inutile il combattimento corpo a corpo e superflua la
maestria nel maneggiare le armi. Il poeta inveisce contro questa
invenzione, “crudele arte”, “scelerata e brutta”, che
distrugge la gloria militare, disonora il mestiere delle armi, riduce
la virtù perché rende il malvagio migliore del valoroso: “Per te
la militar gloria è distrutta, /per te il mestier de l'arme è senza
onore; /per te è il valore e la virtù ridutta, /che spesso par del
buono il rio migliore, /non più la gagliardia, non più l'ardire
/per te può in campo al paragon venire”. La cavalleria riuscì in
qualche modo a resistere a tale trasformazione, conservandosi nelle
istituzioni comunali, negli ordini militari religiosi e negli ordini
equestri, ma la riduzione della cavalleria come arma da combattimento
contribuì a sottrarre le giostre e i tornei da contesti reali. Il
declino del torneo è dunque fra le conseguenze delle innovazioni
tecniche in campo militare; d'altra parte, all'epoca di tali
innovazioni le giostre cavalleresche non erano più quelle micidiali
dell'Alto Medioevo, e andavano trasformandosi in rievocazioni di
un'antica gloria (esistente solo forse solo nei cieli romanzeschi).
Nell'epoca delle corti, e già a metà del secolo, armature, staffe e
finimenti da torneo avevano iniziato a differenziarsi da quelli da
guerra, mentre si arricchiva l'apparato spettacolare e la
presentazione del torneo, che diventava sempre più simile a una
parata o a un trionfo. La codifica dettagliata dei rituali e delle
procedure, che sopravanzano nelle relazioni e nelle testimonianze lo
spazio offerto al combattimento vero e proprio, anticipano, già
prima del tramonto della cavalleria, il deterioramento del rapporto
che legava fin dalle origini il torneo con l'educazione guerresca
della nobiltà e delle cadetteria, e l'eclissarsi della componente
militare. Decaduto il rapporto fra guerra e torneo, il principio che
la nobiltà dovesse misurarsi con le armi rimase però saldo: il
cavaliere aveva il dovere sociale di partecipare ai tornei, anche
solo per mettere in lizza il suo rango e l'eleganza. Nelle città
del Quattrocento, il torneo assunse una funzione politica, perché
legittimava le brigate di cavalieri e di giovani, già parte
importante della civiltà comunale, a imperversare, ognuna secondo il
suo censo e la sua potenza.
In lizza il rango e l'eleganza.
Nell'età
delle corti i tornei avevano soprattutto la funzione di celebrare la
potenza e la ricchezza dei principi e dei nobili, e la prevalenza
dell'esibizione sull'agonismo spettacolarizzava il potere nella sua
forma più maestosa e ne esaltava la forza e l'organizzazione. I
cavalieri si presentavano nella lizza secondo il proprio rango, col
signore in ultimo a chiudere la parata. Le cronache e le
testimonianze insistono sul valore dei gioielli e delle perle che
adornano le gualdrappe dei cavalli o i cimieri dei cavalieri. Ad
esempio, nella descrizione di una giostra medicea, Piero di Giovanni
Vespucci (che non è fra i cavalieri più appariscenti), ha “coverta
al detto cavallo fino in terra di velluto alessandrino, cor una tira
di martore da pièm et in mezzo del drappo e delle martore era
ricamato un broncone di perle di circa libbre 3 in 4, di valuta la
libbra di ducati 60, o più”; mentre Giuliano de Medici, che chiude
il corteo con tamburini e pifferi, veste “una berretta decorata da
una perla di 500 ducati”, ed è accompagnato da “10 cavalieri e
64 fanti con giubberelli di velluto alessandrino luculati di scagli
grandi d'ariento dorato”. Prima che il torneo perdesse la sua
connotazione militare il rapporto con l'ideale avventuroso e
cavalleresco era particolarmente vivo. Una delle corti più intrise
di questi ideale era quella ferrarese, in cui, non a caso, è fiorito
il poema eroico con i capolavori di Boiardo e Ariosto. Quando, nella
primavera del 1476, il signore di Ferrara, Ercole I d'Este, si
disponeva a fare il suo ingresso trionfale in Reggio, la città
decise di onorarlo con palii e tornei, il cui programma, bandito
pubblicamente nelle città vicine, prevedeva un carosello, una
“giostra a demenini”, una finta battaglia contro un castello di
legno, una giostra a lance mozze, una corsa di berberi, una gara di
lotta e una giostra ad armi da battaglia. La “giostra a demenini”,
combattuta con lance a punta larga e tripartita, a mo' di corona, si
svolgeva il secondo giorno ed era la prova più ambita. Vi
partecipavano più di 100 cavalli, e il premio in palio consisteva in
25 braccia di “zetanino cremesino raso”. L'importanza delle
stoffe preziose era notevole, in quanto una parte importante della
giostra era la parata iniziale, per la quale i cavalieri sceglievano
le gualdrappe più fastose. La particolarità di questa giostra
reggiana sta nel fatto che fra i cavalieri vi erano anche uomini
d'arme non blasonati.
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