I più grandi pittori. Giotto. Storia.
Mauro Goretti - Programmatore - |
I più grandi pittori. Giotto. Storia.
Le opere.
Tra
i molti scritti in lode a Giotto sono rimasti famosi quelli di
Cennino Cennini, scolaro di un discepolo del grande pittore
fiorentino. Egli scrisse una frase che, al primo momento, suona
curiosa e incomprensibile, ma è profondamente vera. Disse infatti
che Giotto “rimutò l'arte del dipingere dal greco in latino”.
Sembra un indovinello. Per
capirlo, però, dovremmo guardare le opere che si eseguivano prima
che apparisse Giotto. Lo stile con cui esse venivano dipinte seguiva
ancora la moda lanciata dai bizantini: figure piatte, lunghe, senza
volume; gesti rigidi e stilizzati, visi che non sapevano esprimere i
sentimenti umani, e che apparivano privi di ogni espressione. Era
una pittura fatta di simboli, non di figure. Pochi maestri furono in
grado di staccarsi, e non completamente, da questo stile; tra i pochi
ci fu però Cimabue, il maestro di Giotto. Per anni Giotto lavorò
accanto a Cimabue, a Firenze, poi ad Assisi, sempre attento a far
tesoro degli insegnamenti che il maestro gli impartiva. Venne
finalmente il giorno in cui il priore dei francescani lo mandò a
chiamare per affidargli un incarico importante: affrescare tutta la
navata della Chiesa Superiore di San Francesco con le storie della
vita del Santo. Era circa l'anno 1298 e Giotto aveva da poco compito
30'anni. Non era molto tempo che il Santo di Assisi era scomparso e
il suo ricordo era ancora vivissimo nella dolce terra umbra. Se bene
Giotto non avesse alcun modello di pittura a cui ispirarsi, egli
seppe far rivivere sulle pareti della luminosa chiesa gli episodi più
toccanti della vita del Santo con tanta naturalezza che chi li
vedeva (a cominciare dai frati che non mancavano di sbirciare l'opera
del pittore dal di sotto delle impalcature) rimaneva quasi
sbigottito. Quello che più colpiva era la novità dello stile del
giovane pittore. Non più figure secche e allampanate come erano
ancora un po' quelle di Cimabue, ma persone che sembrava respirassero
e che portavano scritta sul volto l'espressione dei sentimenti che
provavano. In questo troviamo anche la spiegazione dell'apparente
indovinello di Cennino Cennini: Giotto, con la sua pittura, aveva
ricondotto l'arte allo stile “latino”, cioè a quello stile
espressivo e concreto che ha sempre stato una caratteristica degli
artisti d'Occidente, fin dal tempo degli Etruschi e di Roma.
La cappella degli Scrovegni.
Con
le storie di San Francesco ad Assisi, Giotto è appena agli inizi
della sua arte, ma la grande innovazione della pittura è ormai
compiuta. Nelle opere che l'artista eseguirà più tardi continuerà
a maturare e a migliorare il suo stile. Lo si comprese bene nelle
opere del secondo periodo della sua arte: gli affreschi di Padova.
Nella cappella che Enrico Scrovegni gli affidò da decorare, nei
primissimi anni del Trecento, egli narrò gli episodi della vita
della Vergine e di Cristo con una semplicità ricca di poesia che
lascia commossi. È una semplicità che solo un genio può
permettersi e che è un segno della grande arte.
Le cappelle di Santa Croce.
Il
terzo grande ciclo di pitture è quello che Giotto eseguì nelle
cappelle Bardi e Peruzzi della Chiesa di Santa Croce in Firenze.
Esse non hanno avuto, purtroppo, molta fortuna presso i posteri. A
un certo momento infatti furono coperte da uno spesso strato di
intonaco che le nascose per due secoli. Questi affreschi vennero
liberati solo nel 1852, ma la calce aveva ormai quasi del tutto
cancellato le tinte originali. Si ricorse allora all'opera di
restauratori che, nell'intento di salvarli dalla distruzione,
riparassero a tempera i colori, con il risultato di alterare però
profondamente l'originale. Ora i moderni restauri, eseguiti con
infinite precauzioni, le hanno di nuovo ripuliti. Anche se ormai lo
splendore dei colori originali è perduto, questi affreschi sono pur
sempre indicativi della fase più matura dell'arte di Giotto.
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