Quando l'archeologia incontra Omero.
Mauro Goretti e Aramini Parri Lucia. |
Quando l'archeologia incontra Omero.
Quello che sappiamo delle tecniche di
navigazione della marineria della Grecia arcaica, sopratutto
quella micenea della seconda metà del II Millennio a.C. , lo
dobbiamo alle lunghe descrizioni, ricche di particolari, fatte
nell'Iliade e sopratutto nell'Odissea. Se le imponenti
rovine di Troia e Micene confermano la veridicità del mondo cantato
dal poeta, così le recenti scoperte archeologiche in ambito navale
confermano che le descrizioni omeriche si avvicinano, con buona
approssimazione, a quella che doveva essere effettivamente la realtà
marinaresca della Grecia arcaica. Cominciamo dall'etimologia. Nel
descrivere le navi, Omero cita con frequenza due epiteti:
orthòkrairos {
ovvero: dalle corna erette } e kòilos
{ovvero: concava}. Questi aggettivi rendono molto bene il profilo che
presentavano gli scafi a chi li guardava da lontano: delle ricurve
corna di toro. Qui, come possiamo capire tecnica e mito si uniscono.
La prua e la poppa alta, rispondono come abbiamo spiegato a precise
esigenze tecniche, ma considerando la sacralità del simbolo del toro
presso tutte le popolazioni di ceppo
indo-europeo
questo profilo potrebbe testimoniare un'influenza
scaramantico-religiosa.
Numerose pitture vascolari greche del periodo geometrico confermano
questa ipotesi, mostrando sulla prua delle navi l'insegna di due
corna taurine. A livello costruttivo Omero ci da indiretta conferma
che il fasciame con cui erano costituiti gli scafi fosse tenuto
insieme, non da chiodi ma da stretti legacci [ i chiodi dovevano
essere ancora inventati ]. Ce ne da testimonianza quando nei versi
dell'Iliade, nel secondo libro {il catalogo delle navi } descrive le
pessime condizioni della flotta greca: “ Perché
le intemperie e il sole avevano allentato tutte le corde”.
Sappiamo infine sempre da Omero
la grande abilità, che ci voleva a timonare il timone, infatti,
costituito da due grossi remi
poppieri
necessitava per le manovre di una perizia raggiungibile solo
dopo molti anni di pratica.
Per questo, la testimonianza del prestigio
che godevano i timonieri, Omero cita sempre i loro nomi per
tramandarne il ricordo.
Ma
è sopratutto nello spirito e nell'animo con cui questi uomini, e noi
tutti ancora, affrontiamo il mare, che Omero è essenziale.
Discostiamoci
un attimo dall'archeologia e immergiamoci nel mito...
Aggiungiamo che già esiste nella mitologia un dio della guerra:
Ares. Questa apparente ridondanza è spiegata dal fatto che
Ares rappresenta la guerra come esplosione della violenza insensata,
mentre Atena la vede come mezzo di espressione dell'ingegno
umano. Atena guida dunque le imprese di Ulisse perché
essendo straordinariamente forte [Ulisse ama
definirsi:”saccheggiatore di città”], vince
gran parte delle sue sfide ricorrendo all'astuzia [Ulisse è
l'inventore del cavallo di Troia, astuzia militare per
antonomasia]. Il simbolismo a questo punto è chiaro. L'uomo in mare
deve innanzi tutto disfarsi della propria: “hubris”,
e non attraverso la forza bruta e diretta a domare le potenze della
natura, raggiungerà i propri traguardi, piuttosto attraverso il:
“metis”; ossia l'abilità e la
consapevolezza dei propri limiti. La storia ci viene incontro con i
suoi esempi, e non possiamo non ricordare il varo del Titanic
definito l'inaffondabile. Come possiamo capire con un esempio
pratico, ora: hubris sta al Titanic come
la metis sta all'importante innovazione tecnica
apportata dai romani alle loro navi a partire dal 312 a.C.
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